L'idea mi frullava già da parecchio, ma ho sempre pensato che fosse irrealizzabile, poi leggendo qua e là ecco
A scuola senza zaino
Il metodo del curricolo globale per una scuola comunità di Marco Orsi
Traendo spunto dallo zaino come oggetto emblematico, inventato per gli eserciti e per i viaggiatori che affrontano luoghi inospitali, l'opera esamina la scuola come un sistema complesso, un ambiente in cui tutti gli aspetti hanno un valore, quelli materiali come quelli immateriali: da una parte gli strumenti, gli arredi, gli edifici, i laboratori, dall'altra gli obiettivi, la valutazione, i saperi, i metodi, la progettazione, le relazioni, le regole. L'oggetto zaino rimanda, in modo sorprendente, a un modello pedagogico improntato all'individualismo e alla standardizzazione: è come il sintomo di una difficoltà a sviluppare un apprendimento significativo fondato sull'esperienza. Viene lanciata perciò una sfida volta a riconfigurare la scuola coinvolgendo allievi e docenti. La «scuola senza zaino», un progetto che sta impegnando 11 istituti in Toscana, riscopre una dimensione di ospitalità e si propone di creare una comunità di ricerca favorendo la responsabilità degli alunni e l'acquisizione di competenze. Ogni aspetto viene ripensato attraverso il metodo del curricolo globale, riguardo al quale si forniscono qui schede e strumenti operativi per la gestione della classe e la progettazione delle attività. Una novità del libro è quella di coniugare l'approccio pedagogico con quello organizzativo, per cui l'opera si rivolge sia agli insegnanti che ai dirigenti scolastici.
Interrogativi basilari
Credo che nessuno di fronte alla scuola non abbia sperimentato, almeno una volta, un certo disagio, una qualche sottile inquietudine. E se si ha il coraggio di non zittire quella flebile voce, se la ascoltiamo e le diamo la forza di affermarsi, allora il piccolo disagio può trasformarsi in un’inquietudine profonda, in un turbamento più forte, fino al punto da provare una vera e propria sofferenza. Ma che cosa stiamo offrendo loro? Che modelli proponiamo a questi nostri bambini e a questi nostri ragazzi? Sono davvero capaci di promuov il coraggio di non zittire quella flebile voce, se la ascoltiamo e le diamo la forza di affermarsi, allora il piccolo disagio può trasformarsi in un’inquietudine profonda, in un turbamento più forte, fino al punto da provare una vera e propria sofferenza. ere -come si dice oggi con tanta enfasi - competenze, autonomia, apprendimento? Sono in grado – questi modelli - di appassionare alla scoperta del mondo, di aprire il varco per un’esplorazione entusiastica del sapere umano? E’ la scuola una scuola di vita e per la vita o è intesa come mero luogo di transito, di preparazione alla vita, quasi una sorta di limbo dove si deve stare obbligatoriamente per più di un decennio per poi finalmente inserirsi, essere riconosciuti come persone a tutti gli effetti? E’ luogo vitale, coinvolgente, appassionate, dove si ricerca insieme, dove si lavora e si fatica volentieri in uno spirito di comunità, per fare esperienze significative, o al contrario è un posto in cui è chiesto uno sforzo dal significato incomprensibile, dove si imparano cose il cui valore sfugge? E ancora. E’ la scuola un luogo dove la persona è riconosciuta in tutta la sua globalità di corpo e di mente, di emozioni e ragione, di cuore e intelletto e dove si superano dualismi come quello cartesiano tra pensiero e materia, o come quello tra soggetto e oggetto? Un luogo dove i verbi dello scrivere, parlare, ascoltare, leggere si coniugano con quelli dell’esplorare, costruire, danzare, mimare, sentire, fare, simulare, toccare, manipolare, interpretare e rappresentare, sperimentare e provare, o invece è lo spazio della unidimensionalità, della frammentazione, dell’oblio non solo delle emozioni, ma anche delle proprie disposizioni particolari, uniche, della globalità della persona?
Allora a chi imputare la demotivazione, l’agitazione, la noia, la passività, l’irrequietezza che noi costatiamo in questi bambini e questi ragazzi? Lo imputiamo a loro, o meglio ad una società malata e ad una famiglia che è in crisi, o c’è qualcosa anche nella scuola che non funziona, un modello che non è rispettoso della loro dignità, un agire volto più a chiedere conformismo, adattamento, passività, piuttosto che libertà, creatività, indipendenza, autonomia, ricerca?
Ripensamenti radicali
Se è così, se c’è una responsabilità anche da parte della scuola, allora il nostro sottile disagio può trasformarsi in profonda inquietudine e farsi voce chiara e argomentata nelle molte analisi di insigni studiosi che diagnosticano l’incapacità della scuola - di questo modello scolastico - di rispondere tanto ai bisogni dei bambini e dei ragazzi, quanto alle esigenze di una società e di una cultura in profonda trasformazione, una modernità non più tradizionale, ma liquida, ad un tempo frammentata e globale. La scuola è chiamata a ripensarsi in modo radicale, a mettere in crisi pratiche consolidate, impostazioni e strutture sedimentate, atteggiamenti e comportamenti assodati: non ci pare possibile che nei prossimi decenni possa ancora sopravvivere questo modello nato più di un secolo fa, e che già autori come Dewey, Montessori, Claparede, Steiner, Freinet in modo profetico, nella prima metà del ‘900, mettevano in discussione. In Italia negli anni ’90 dello scorso secolo si è posta una grande enfasi sull’autonomia degli istituti scolastici. Si diceva che ciò avrebbe aperto il sistema ad una pluralità di proposte, di sperimentazioni, di novità; avrebbe inserito elementi di fluidità, di innovazione in un organismo che da molte parti veniva visto come fermo, immobile, ingessato. Tuttavia il cambiamento è stato solo apparente, di facciata. Si è guardato all’immagine, poco alla sostanza. L’iniziativa degli istituti si è ampliata a dismisura generando, proprio in questi anni, un’inflazione di progetti, di azioni, programmi, ma il nucleo centrale, il modo di essere fondamentale della scuola non è cambiato. Il modello è rimasto quello. Basta entrare in un’aula per cogliere come la rappresentazione della vicenda scolastica, quotidianamente, spesso persegue il medesimo cliché: un sapere trasmissivo che si avvale della triplettaspiegazione alla cattedra - compito individuale ai banchi – interrogazione: una relazionalità competitiva e individualistica che ha la sua centratura sulla motivazione estrinseca data dai voti, ove prevale un approccio all’apprendimento logico – formale, non basato sull’esperienza e sulla ricerca, che non promuove attenzione alla dimensione vocazionale e di vita dei soggetti. Come è allora possibile in un contesto del genere pensare ad un apprendimento stabile, al conseguimento effettivo di competenze, ad una formazione e ad una maturazione consistente e duratura?
Un cambiamento è però possibile. Si può cominciare da qualsiasi cosa, basta avere occhi per vedere, orecchie per sentire, mani per toccare… Noi abbiamo guardato anche gli oggetti. Gli oggetti che nella nostra cultura riteniamo essere inanimati, senza voce, neutri. Eppure per le culture orientali, come per quelle andine dell’America Latina non è così: l’oggetto, la materia, parla, lancia un messaggio. Basta dargli voce, basta avere la forza di osservare i particolari per far sì che la vita quotidiana esca dalla ferialità e diventi straordinaria, dimensione non scontata, qualcosa che può anche sconvolgere. Noi siamo partiti da un oggetto apparentemente banale, feriale, quotidiano: lo zaino che utilizzano i nostri bambini e i nostri ragazzi per andare a scuola. Perché, ci siamo chiesti, viene impiegato solo nelle scuole? Perché gli adulti per andare al proprio lavoro tutt’al più portano con sé solo cartelle o borse leggere? C’è qualcosa dietro a tutto questo che ci chiama ad un’interpretazione o si tratta solo di banalità inutilmente rincorse?ali, come per quelle andine dell’America Latina non è così: l’oggetto, la materia, parla, lancia un messaggio. Basta dargli voce, basta avere la forza di osservare i particolari per far sì che la vita quotidiana esca dalla ferialità e diventi straordinaria, dimensione non scontata, qualcosa che può anche sconvolgere. Parrà strano ma dando la parola a questo oggetto abbiamo capito molte cose sulla scuola, su come funziona e sulle sue possibilità di cambiamento. Il solo fatto di paventare ad un certo punto la sua eliminazione e il vedere resistenze, chiusure, innalzamento di “difese organizzative”, ci ha convinto della portata che gli oggetti hanno nelle organizzazioni e del fatto che le trasformazioni passano anche per la parte hardware.
Con sempre più chiarezza abbiamo colto che il cambiamento non può avvenire se non coinvolgendo anche l’oggettualità, l’hardware dell’organizzazione – scuola, se non mettendo mano all’aula, alla sua struttura strumentale fatta di banchi, sedie, cattedre e lavagne.
Ritornare al mondo vitale dell’aula
Inoltre, il prendere in esame uno strumento apparentemente innocuo come lo zaino, ci ha convinto che era necessario entrare nella quotidianità del fare scuola, prestare il massimo ascolto e dare la massima importanza a ciò che ogni giorno avviene in aula. Si è così imposta, con più forza, l’esigenza di un ritorno alla dimensione primaria della scuola, all’aula appunto, laddove si incontrano ogni giorno, in uno spazio delimitato (spesso angusto), gli insegnanti con gli alunni per mettere in scena il processo di apprendimento – insegnamento. La vitalità e l’importanza della scuola non sta negli innumerevoli progetti di cui ormai tutti gli istituti si fregiano, né nel lavoro pur encomiabile ed apprezzabile dei dirigenti e dei docenti degli staff, tanto meno nel lavoro, pur di valore, degli assistenti amministrativi e dei collaboratori scolastici. La vitalità e l’importanza della scuola risiede proprio nel mondo vitale dell’aula che oggi sembra essere dimenticato, reso oscuro, anonimo: quello è, invece, il bene più prezioso. Questo ritornare alle relazioni primarie è un invocare il ritorno a quei mondi vitali di cui Husserl sentiva la necessità nel secolo scorso per superare la crisi di un’epoca, che per noi vuol dire fare fronte alla crisi della scuola così come oggi è concepita.
Non a caso in questo volume si parla dell’aula come cuore dell’organizzazione, immaginando la scuola come una piramide rovesciata: in alto la classe composta da docenti e allievi e in basso il dirigente, lo staff, il personale amministrativo: una prospettiva di radicale sconvolgimento che costringe tutto un istituto a ripensarsi, ed in primis, il dirigente scolastico, che non può non riprendere la consuetudine con il suo ruolo di leader educativo. del fare scuola, prestare il massimo ascolto e dare la massima importanza a ciò che ogni giorno avviene in aula. Si è così imposta, con più forza, l’esigenza di un ritorno alla dimensione primaria della scuola, all’aula appunto, laddove si incontrano ogni giorno, in uno spazio delimitato (spesso angusto), gli insegnanti con gli alunni per mettere in scena il processo di apprendimento – insegnamento. La vitalità e l’importanza della scuola non sta negli innumerevoli progetti di cui ormai tutti gli istituti si fregiano, né nel lavoro pur encomiabile ed apprezzabile dei dirigenti e dei docenti degli staff, tanto meno nel lavoro, pur di valore, degli assistenti amministrativi e dei collaboratori scolastici. La vitalità e l’importanza della scuola risiede proprio nel mondo vitale dell’aula che oggi sembra essere dimenticato, reso oscuro, anonimo: quello è, invece, il bene più prezioso. Questo ritornare alle relazioni primarie è un invocare il ritorno a quei mondi vitali di cui Husserl sentiva la necessità nel secolo scorso per superare la crisi di un’epoca, che per noi vuol dire fare fronte alla crisi della scuola così come oggi è concepita.
Progettare con il metodo del Curricolo Globale
Ma in linea più generale è emersa un’altra idea – guida, e cioè che non si progetta genericamente la formazione, ma l’ambiente formativo. La progettazione è progettazione dell’ambiente formativo.Si è imposta, in tal senso, una visione ecologica del fare scuola che ci ha permesso l’elaborazione delMetodo del Curricolo Globale. Per sgombrare il campo da ogni preoccupazione diciamo subito che non si tratta di un metodo di insegnamento, ma di una modalità per comporre nel miglior modo possibile tutti i fattori che concorrono alla progettazione dell’offerta formativa. Il curricolo globale implica una prospettiva secondo la quale è l’esperienza scolastica nella sua ampiezza, a cui è esposto il bambino e il ragazzo, a favorire la crescita e l’apprendimento, ovvero l’ambiente formativo costituito da relazioni tra soggetti e soggetti, ma anche tra soggetti e oggetti e tra oggetti e oggetti. Un sistema complesso le cui parti hardware e software sono connesse e retroagiscono tra di loro. La nozione di sistema complesso si lega a questo punto a quella di organizzazione ricorsiva (Orsi 2002b) che dice del fatto che imodidi progettare, lavorare in gruppo, comunicare, stare insieme, di apprendere (nella formazione) dei docenti nei momenti di non – aula incidono con una forza non riconosciuta sui modi di lavorare, di stare in gruppo, di comunicare, di insegnare che caratterizzano il momento dell’aula. E viceversa. Morin nella sua visione ecologica ci ha spiegato che i prodotti di un’organizzazione sono necessari per la sua stessa causazione.
E tutto questo promuovendo al massimo un disegno di azione didattica orientato a far sì che docenti e alunni elaborino assieme il percorso scolastico, per cui lo sforzo è quello di uscire dalla logica di insegnanti cheprogettano le cose che devono far fare ai bambini e ai ragazzia favore della logica che richiede una costruzione condivisa di progetti e significati per cuitutti fanno qualcosa, hanno un ruolo, si prendono un impegnoper portare avanti una ricerca, per scoprire una parte di mondo, per acquisire nuove conoscenze. Progettare significachi fa che cosae ciò riguarda tanto gli alunni, quanto i docenti. In questo senso l’apprendimento diventa davvero cooperativo e nella scuola inizia costituirsi un’effettiva comunità di ricerca.
Rivalutare l’attività / ridurre l’enfasi sui risultati
In questo ritorno al mondo vitale dell’aula la progettazione è stata sottoposta a critica anche per la sua astrattezza e deduttività. Soprattutto nel nostro Paese si è imposto ilmodello per obiettivi, che pur avendo avuto dei pregi, alla lunga ha contribuito a rendere sterile l’attività didattica, a mettere in secondo piano la metodologia. Troppa importanza è stato assegnato alche cosa bisogna conseguire, agli obiettivi da raggiungere,rispetto alcome. Eppure ilcomeè il luogo della didattica, il luogo per eccellenza della scuola. I migliori pedagogisti ci hanno detto che l’enfasi sulla prestazione, l’accento esasperato sull’obiettivo e sul risultato viene pagato con lo stress di alunno e docente e con lo svuotamento di senso di ciò che si sta facendo, con l’isterilimento di quell’attività che svolgiamo qui ed ora, nel presente. Non si propone con il progetto Senza Zaino il vecchio attivismo, ma certamente una rinnovata importanza dell’attività: non va dimenticato, infatti, che è quelloche si faa scuola che coinvolge i ragazzi e i bambini, meno la pressione degli obiettivi e dei risultati. Paradossalmente si hanno risultati migliori se non si incorre nel pericolo di essere ossessionati dai risultati medesimi: è un legge psicologica non nuova, ma che non sembra essere di casa nelle nostre scuole.
L’enfasi sui risultati, la pressione sui bambini e sui ragazzi è lo specchio di un modello scolastico improntato alla dipendenza e alla passività. Questa non è propriamente la strada per il tanto invocato apprendere ad apprendere, per l’acquisizione delle competenze, che è poi il cammino per incoraggiare i bambini ed i ragazzi ad essere protagonisti, in prima persona, della propria biografia. Così la scuola, anche se dichiara il contrario, si è strutturata secondo questo fiume carsico del potere dell’adulto che condiziona e plasma un modello pedagogico poco rispettoso, un’educazione depositaria direbbe P. Freire, incapace di incentrarsi su quell’ospitalità dell’ambiente formativo che fa sentire accolti e riconosciuti nella propria originalità, che sa attivare cooperazione, che mette in grado di sollecitare l’esplorazione.
Tanta irrequietezza, demotivazione, disinteresse dei ragazzi e dei bambini, il famoso mal di scuola, ha la sua radice nel non riconoscimento di un’ambiguità che fa sì che la società adulta, e in particolare la scuola, ricerchi anche se ufficialmente si dice il contrario, il loro adattamento piuttosto che la loro libertà. Con Hannah Arendt viene da dire che la società ha paura della novità, vale a dire dei soggetti giovani, che in quanto nuovi nati sono portatori di un inedito, che se accolto ci scompagina e ci rende insicuri. Può essere allora che la scuola, magari in modo sotterraneo e sofisticato, visto che i metodi repressivi di una volta non sono più di moda, si strutturi più per delimitare, costringere, adattare, in luogo di ricercare la libertà, l’espressione di ciascuno, la cooperazione e la comunità? La scommessa della visione che il progetto Senza Zaino tenta di realizzare è forse condensata qui nel prendere il largo per provare nuove strade che pure sono vecchie. C’è qui ancora tutta una tradizione che va da Rousseau a Pestalozzi, da Dewey a Montessori, da Freinet a Claparede, da Piaget e da Bruner e a Gardner che attende ancora un pieno compimento.
Il volume
Il volume è diviso in 3 parti. Laprima parteè dedicata allavisione.Essa vuole aprire lo sguardo sullo scenario che ci ha mosso in questi anni. Il primo capitolo si sofferma, infatti, sul significato dell’oggetto zaino. Cerchiamo di far riflettere sul fatto che nessuno strumento è neutrale, tanto meno nella scuola. Lo zaino dice qualcosa di profondo che va letto e interpretato. Nei successivi tre capitoli (2°, 3° e 4°) esaminiamo i tre valori che sono per noi dei fari – guida dell’azione educativa:l’ospitalità, la responsabilità, la comunità di ricerca.Laparte secondaè invece dedicata alla pratica e al metodo di lavoro. La nozione fondamentale attorno alla quale si svolgono i capitoli è quella dicurricolo globale(capitolo 5° e 6°). Introduciamo l’idea, anch’essa non nuova, ma scarsamente praticata, che progettare la formazione significa, in realtà, progettare l’ambiente formativo. Vorremo che si affermasse un approccio di tipo ecologico che si avvalga di concetti come quello di sistema e di complessità. Il capitolo 7°, dedicato al Manuale del GCA (Global Curriculum Approach),fornisce gli strumenti per condurre la classe e la scuola verso la visione che ci orienta. Quello del GCA è un metodo che scaturisce dalla pratica di questi anni di condivisione e di ascolto del lavoro degli insegnanti. Questa seconda parte si conclude con i capitoli 8° e 9°che offrono indicazioni per la gestione della classe nella prospettiva dell’aula qualecuore dell’organizzazione scolastica.
Laparte terzaè dedicata agliapprofondimenti. Nei primi 4 capitoli riprendiamo il tema dell’ambiente formativo per darne una descrizione più approfondita (capitolo 10°), successivamente ne cogliamo le articolazioni a partire dalle variabili dispazio, tempo, tecnologie, corporeità, popolazione(capitolo 11°, 12°, 13°). Nell’ultimo capitolo (14°) vengono svolte considerazioni critiche sui tradizionali modi di intendere la progettazione (come programmazione per obiettivi), dando un’indicazione a favore della rivalutazione delle attività e della pianificazione a livellomicro.
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