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lunedì 25 gennaio 2016

Il carnevale sardo - Su carrasecare



Il carnevale che sopravvive all'interno dell’isola si presenta con tratti assai arcaici.
Non ha niente a che fare con i carnevali trasgressivi che comportano travestimenti e capovolgimenti di ruoli. É un carnevale tragico e luttuoso, basato sul concetto di morte e rinascita, teso alla richiesta della pioggia e alla commemorazione di Dioniso, dio della vegetazione e dell’estasi, che ogni anno muore e rinasce nel ciclo naturale dell’eterno ritorno.
La parola carrasecare (carre de secare), con la quale si designa il carnevale sardo, etimologicamente significa carne viva da smembrare. I seguaci di Dioniso infatti laceravano capretti e torelli vivi per ricordare la morte del dio che era stato sbranato dai titani.
Osservare le arcaiche maschere dell’interno della Sardegna, vestite di pelli, cariche di campanacci o di ossi animali, col volto annerito dal sughero bruciato o coperto da una maschera nera, significa fare un tuffo nella preistoria. Mimano la passione e la morte di Dioniso Mainoles, il cui nome in Sardegna si è corrotto in Maimone, nome che viene dato genericamente a tutte le maschere. La cattura e la morte di Dioniso viene rappresentata attraverso la cattura e la morte di una vittima sostitutiva.
Le maschere si muovono in una sorta di danza zoppicante che rappresenta lo squilibrio deambulatorio tipico delle feste dionisiache. Di questo culto è rimasta la gestualità, il ritmo, gli strumenti sonori e quelli agricoli che le maschere si portano dietro, nonché il laccio per catturare la vittima e la soga con cui veniva legata. Questa vittima viene generalmente presentata sotto forma di capro, toro, cervo, cinghiale, tutte ipostasi di Dioniso che sotto questi aspetti si manifestava. I carnevali tradizionali rappresentano tutti questo rito. Si differenziano da un paese all'altro perché ciascuno ha conservato un momento diverso di questa rappresentazione. Figure vestite a lutto piangono la morte del dio e con esso la fertilità che viene a mancare.Appaiono uomini col gabbano nero, il cappuccio calato sugli occhi, il volto annerito. Tutti segni di lutto profondo perché con la morte del dio muore, per un certo periodo, anche la fertilità della terra. Ci troviamo pertanto davanti ad un rito agrario antichissimo. Sono gli ultimi retaggi di un culto dionisiaco sopravvissuto a livello d’inconscio, le cui tracce sono però ancora evidenti.
Culto che un tempo era presente in tanti paesi dell’area mediterranea e che in Sardegna, per quanto banalizzato e relegato nel carnevale, poté sopravvivere proprio perché era legato alle annate agrarie e allo spettro della siccità, che bisognava esorcizzare ripetendo il rito del Maimone. Ancora nel 1700, secondo le testimonianze del gesuita B. Licheri, tutte le maschere avevano le spalle cariche di ossi animali, anziché di campanacci, che agitavano ripetutamente perché dalle ossa si rigenera la vita. Dioniso era divinità agraria traco-frigia, antichissima, la più importante nel mondo agropastorale, come rivelano le tavolette in lineare B di Pilo e Micene. Probabilmente il suo culto penetrò in Sardegna intorno al XIV – XIII sec. a. C. nella forma più cruenta, non mitigato dalla religione orfica.

(testi Prof.ssa Dolores Turchi)


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